Dagli albori della storia, o, almeno, da quando si ha memoria, l’universo è dominato da due forze in contrasto tra di loro e che sono all’origine di ogni pensiero che il saggio Marx indicava col nome di “sovrastruttura”, ovvero religione, filosofia e tutto ciò che non apparteneva alla sfera dei bisogni primari, la cosiddetta “struttura”. Lungi dal soffermarci sull’aspetto politico e sociale della vicenda, l’intendo è quello di affrontare un tema dibattuto da secoli su un piano prettamente teoretico. L’argomento dell’indagine qui enunciata è l’eterna lotta tra il bene e il male, tra la luce e l’oscurità, tra il bianco e il nero. Una lotta incessante che richiama varie branche del sapere. Una delle linee teoriche che ha dominato la sfera culturale negli anni antecedenti al Cristianiesimo è il Manicheismo a cui anche Sant’Agostino, prima della sua conversione, ha aderito con particolare entusiasmo. Secondo la dottrina elaborata dal profeta Mani, il mondo si regge su due forze contrapposte, il bene e il male appunto. Il primo incarna la luce e la spiritualità, il secondo le tenebre e la materialità.<br>Una dualità che domina il mondo e l’anima umana in un eterno conflitto degli opposti, un fuoco che arde e divampa incessantemente richiamando l’eterno divenire eracliteo. Con il Cristianesimo questo dualismo ha raggiunto l’apice. Sulla vetta, al di sopra del creato, c’è Dio, l’eterno bene, l’amore da cui tutto promana (Sant’Agostino), nei meandri più profondi, invece, in quell’abisso oscuro e dannato, c’è Satana, il male assoluto. Nel De Civitate Dei, Agostino parla di due città, la Gerusalemme celeste, il bene, destinata a trionfare, e la Gerusalemme terrena, il male e il peccato, destinata a soccombere. Una dualità che contrasta nettamente  con l’eterna unità che ha governato per secoli la scena filosofica. I neoplatonici, di cui Agostino era un fervente lettore, sostenevano l’unità del divino, questo Uno che era tutto e da cui tutto si diffondeva, generando una gerarchia degli esseri da cui però l’Uno non faceva parte, essendo esso l’essere per eccellenza, l’esistenza all’ennesima potenza, ciò che è e da cui tutto promana. Già Parmenide aveva cercato di dare una definizione di essere, un primo tentativo in chiave metafisica che discostava dalla fisica concreta dei suoi antichi colleghi. Secondo il filosofo greco, l’essere è un eterno presente, fisso e immobile. “L’essere è e non può non essere” sostiene con convinzione. Un essere che travalica nella piatta versione di un eterno fissare, come le anime che descriveva Dante nel suo Paradiso. Una danza e un inno verso Dio, verso la pienezza e bontà d’essere, amore di essere, amore in ogni forma che sfocia in felicità perenne nel semplice osservare estatico della luce, del bene.
Al contrario il male genera sofferenze e dolore, torture e pene infinite, come Paolo e Francesca, travolti da una tempesta eterna per il loro amore lussurioso, ma ben altre pene peggiori sono riservate ai dannati.
Dunque, il bene e il male, sono due forze che, irrimediabilmente, reggono le fondamenta dell’universo e, come due potenti titani, sorreggono sulle loro spalle la volta celeste per impedire che il mondo venga distrutto.
Una sorta di legge divina regolata però dal libero arbitrio, e qui entra in gioco l’uomo e la sua morale.
L’uomo può e deve scegliere se seguire il bene o il male, se ancorarsi al bagliore candido della luce divina o lasciarsi schiacciare dal buio pesto del male. Una scelta non sempre dettata da una lucida, quanto flebile, razionalità umana, ma dettata, spesso, da una natura innata che pervade l’individuo dalla nascita.
Ancora una volta l’uomo è protagonista indiscusso della storia e della filosofia, del suo vivere nel mondo e delle azioni che compie, guidato dall’imperfezione del suo essere, in contrasto con la perfezione assoluta.